Adelinda, bambina d'alto rango della Fara di Romans
Adelinda è il nome longobardo ̶ significa “scudo di nobiltà” ̶ con cui si è deciso di chiamare la bambina della tomba 327 per farla rivivere all’interno del Museo di Romans. Morta poco dopo il 568, a meno di dieci anni, era di alto rango e figlia di un guerriero: venne sepolta in un settore tutto suo della necropoli, in cui altri genitori che ebbero il dolore della perdita di un figlio posero poi i loro bambini e i loro ragazzi.
Indossava le sue cose più preziose; aveva un bracciale con un campanellino, destinato con il suo suono ad allontanare le malattie ̶ speranza purtroppo disattesa ̶ , una fusaiola e un ago da lana. Alla fine del funerale i genitori deposero un vaso di terracotta in cui, ricordandosi delle sue golosità di piccola bimba, avevano sistemato delle uova e un pezzo di volatile, forse pollo, per aiutarla nel suo viaggio solitario verso l’aldilà.
Ascoltiamo il suo racconto.
«Chiamatemi pure Adelinda, anche se per i miei sono sempre stata “piccola” e “tesoro”.
Dell’Ungheria non mi ricordo molto, ricordo di più i racconti della mamma che ne parlava la sera, accanto al fuoco: il cielo limpido, la pianura sconfinata, l’immensa distesa del lago Balaton. Ero tanto piccola quando tutti noi ce ne siamo andati, nel 568, seguendo re Alboino, in cerca di nuovi posti dove vivere.
Che rumore facevano le ruote dei carri e come era bello il mio papà quando con gli altri guerrieri andava avanti, a cavallo, per vedere che non ci fossero pericoli!
Poi siamo giunti qui, in questo luogo tranquillo, con i suoi fiumi. Sono stata bene, giocando con gli altri bambini della fara, combinando a volte piccoli grandi disastri, come quella volta che – non so davvero come – ho rovinato le due fibule che, attaccate a un nastro che pendeva dalla mia cintura, ben stretta dalla fibbia, brillavano tanto quando camminavo o correvo.
Quanto sono rimasta male! Ma papà ha sistemato tutto. Il suo amico fabbro è venuto a casa, mi ha detto di non piangere più: ha tagliato via le parti rovinate e ha unito quelle ancora buone creando una fibula “nuova”, una cosa che nessun’altra del villaggio aveva.
Avete visto le collane? Una al collo, una al polso, in attesa che diventassi grande: erano della mamma e prima di lei della nonna. E il braccialetto tutto mio, con appeso il campanellino che tintinnava per tenere lontano il raffreddore?
Lo spillone che mi teneva fermi i capelli? Che bello il mio fiore di pietra, come dicevo alla mamma: una fusaiola in cristallo di rocca, che usavo per imparare a filare, accanto alle mie sorelline, ridendo per niente, nelle sere di inverno... ma lavoravo anche con un ago da lana, mi piaceva tanto darmi da fare.
Poi la moneta antica che il papà mi ha regalato... e il vaso da cui andavo, di nascosto, a prendere uova o pezzetti di pollo avanzati messi lì dalla mamma? Come erano buoni!
Ecco, questa sono io».